venerdì 21 giugno 2013

I kata e la necessità di una tradizione. Parte finale.



La mente umana tesse questa sua cultura per non disperdersi con la morte, per durare all' impermanenza delle cose, per fronteggiare le sfide alle quali la vita la sottomette continuamente per lottare contro il tempo, e per scrutare e dominare la natura. La mente dell' uomo vuol dire la sua sulla sopravvivenza in questo Universo vivente. Vuole trasmettere ad altre menti le proprie esperienze ed i suoi aneliti, per poi passare per il mondo lasciando una traccia, un messaggio.

 Il Kata non è altro: è un linguaggio del corpo composto da segni significativi recanti un messaggio, articolati da una sintassi e regolati da una grammatica ben precisa che garantisca la chiarezza del messaggio quando questo sarà recepito, decodificato e riprodotto in un' altra intelligenza. Come per ogni altro linguaggio, poi, il Kata c'è per riflettere la pura luce dello spirito nella natura materiale e per testimoniare dello scarso, prezioso e pericoloso dono della libertà nell' uomo. Alla fine dei conti, se fosse vissuto più a lungo, Bruce Lee si sarebbe ricreduto sull' utilità dei Kata e avrebbe sconfessato gli eccessi dottrinali dello Zen e di un Krishnamurti.

 Poiché come abbiamo fortunatamente capito sin da molto giovani, per trascendere la nostra mente e superare il suo universo fatto di logica e parole, prima però bisogna averne una. Ci è solidale in questo punto il pensiero del Maestro Massimo Scaligero, che afferma: - Dottrina del Non Mentale, lo Zen esige pertanto una eccezionale attività mentale - Prima di attingere l' unita trascendentale del Ken e dello Zen nel regno della Non Forma è necessario attraversare per lungo e largo il processo della forma, appunto del KATA.

 (Fonte: Tang Su Do, autore: Roberto Daniel Villalba, edizioni mediterranee)

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